Gli stemmi degli odierni enti locali, in particolare di quelli comunali, affondano le loro radici per lo più nel medioevo. Essi trovano scaturigine nella simbologia iconografica con cui l’aristocrazia militare usò decorare i paramenti dell’armatura e i finimenti del destriero di battaglia; figure ed emblemi avevano la funzione di identificare la stirpe d’appartenenza o per la quale di combatteva, contribuendo a rafforzare con il potere evocativo delle immagini stilizzate il legame identitario delle casate. In virtù di tale origine gli stemmi mantengono a tutt’oggi, generalmente, la forma di scudo.
La finalità identitaria, distintiva e, per certi aspetti, competitiva dell’insegna araldica, venne fatta propria dalle città del XIII secolo, quando, stabilmente organizzatesi nella forma autonoma di comune, sentirono la necessità di definire iconograficamente la loro entità giuridica alla medesima stregua dei lignaggi nobiliari, persino di quelli principeschi, con cui il Commune Civitatis, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, era entrato in diretta concorrenza.
La croce, simbolo sacro e pio per eccellenza, fu uno dei segni più utilizzati nelle sue molteplici varianti di foggia e di colore, qualche volta accompagnati da parole d’ordine ¬ pax, libertas ¬ suggestive del nuovo ordine cittadino, nettamente alternativo a quello rurale dominato dalla soggezione feudale. Accostato o meno che fosse a slogan evocativi, lo stemma comunale alludeva a uno spazio «nuovo», a un luogo libero e associato, legato alle regole scaturenti da un patto di convivenza mediante il quale i contraenti ¬ non indistintamente tutti i residenti, ma solo coloro tra quei residenti che potessero vantare risorse autonome e conseguente status sociale ¬ si alleavano con modalità di coesione tendenzialmente egualitarie o, comunque, non connesse con la ineluttabilità della subordinazione ereditaria a cui erano soggetti i residenti delle campagne.
Modena, comune di precoce assestamento, alla stregua di altri centri italiani trovò nella mitologia del suo più antico passato cristiano l’ispirazione per elaborare una sorta di celebrazione epica della comunità cittadina, che sotto l’episcopato di Geminiano, nel IV secolo dopo Cristo, avrebbe riconosciuto per la prima volta la sua essenza identitaria. La cerimonia di traslazione e di ricognizione delle sante spoglie di Geminiano, avvenuta nei primi anni del XII secolo alla presenza del pontefice e della signora territoriale Matilde di Canossa, si poneva in certo modo quale atto fondativo non del comune in quanto entità istituzionale, bensì del suo spirito comunitario, della sua percezione di sé come individualità collettiva, per così dire, avallata dalla proba guida di un santo.
Se insistiamo sulla figura del santo patrono di Modena è perché proprio a lui o, per meglio dire, alla sua figurazione iconografica che si deve la scelta cromatica dello stemma comunale. Oppure è vero il contrario: l’opzione cromatica già avvenuta dalle autorità comunali avrebbe illustrato anche l’apparato equestre del santo. Comunque sia, è certo che la figura di San Geminiano appare ben presto ricorrente nei sigilli comunali; ma è solo nella riproduzione policroma dei manoscritti miniati che è possibile riscontrare la gualdrappa dorata e crociata d’azzurro della bardatura del santo. Nella miniatura di uno dei due codici membranacei del testo statutario modenese del 1327 appare, per usare le nitida descrizione offertaci dal Vicini, «S. Geminiano a cavallo che leva la destra a benedire; nella sinistra tiene le briglie e il pastorale. Il cavallo è ricoperto da un’ampia gualdrappa sulla quale sono due grandi croci». E ancor oggi questa raffigurazione illustra il logo della nostra Università.
Quale mirabile trasfigurazione dell’iconografia araldica che, dapprima monopolio di bellatores di illustre casata, viene ora rimodellata su valori fondativi di ben altro rimando simbologico ¬ la pax assicurata dalla benedizione del bonus patronus ¬, valori comunque non per questo del tutto privi di suggestioni competitive, se non propriamente guerresche. Sullo sfondo dell’immagine, dietro il santo ma ben visibile nella sua mole, il complesso architettonico della città, essa sì evidentemente portatrice di un messaggio di forza, anche militare, che la difesa della comunità geminiana sa di dover affidare, oltre che alla celeste protezione del santo, anche alla bontà della sua cinta muraria.
Verranno i momenti e le occasioni per rappresentare, insieme al santo e ai suoi colori crociati, anche altri simboli di significato istituzionale o diplomatico: penso all’aquila (il vicariato imperiale di Modena e Reggio), alle chiavi di San Pietro (il vicariato apostolico di Ferrara), al fleur de lys (il legame dinastico con la Francia) ¬ elementi araldici che la dipendenza alla signoria estense porterà in dote all’iconografia comunale.
Ed è proprio al mondo signorile d’età rinascimentale che si deve la moda di arricchire l’arredo simbolico della casata con le stilizzazioni araldiche delle «imprese», nell’ottica di nobilitare, in forma di rinvii mitologici, le virtù dei suoi esponenti. Si può cercare in questo ordine di valori e in questo clima culturale il significato delle due trivelle disposte in croce di Sant’Andrea che, dapprima in riproduzione isolata, poi disposte ad arricchire, in secondo piano, lo scudo crociato gialloblu della Communitas Mutine, fanno la loro comparsa a partire dalla prima metà del XVI secolo, probabilmente collegate a una «impresa» adottata da una delegazione di giovani esponenti della cittadinanza modenese in trasferta a Napoli per il matrimonio di Ercole, fratello del duca Borso d’Este.
Manca ancora qualche dettaglio. Il motto Avia pervia, ideato per illustrare il significato delle trivelle, è stato attribuito all’erudito Giovanni Maria Barbieri, all’epoca cancelliere comunale, che fu uno dei principali ideatori dello spirito celebrativo ¬ oggi potremmo dire mediatico ¬ dei festeggiamenti predisposti dalla città per la visita di Alfonso II d’Este nel 1561: quell’inaccessibilità (avia) che diventa accessibile (pervia) vale a fornire alle metaforiche trivelle un esplicito aggancio ad una delle doti che la comunità geminiana intendeva manifestare al suo duca ¬ la tenacia, la dedizione, la forza con cui la città-trivella si riteneva capace di rendere facile (pervia) la strada più difficile (avia), quella attraverso la quale il prezioso liquido di cui è ricco il sottosuolo modenese, perforando l’ostacolo del terreno, poteva giungere sino alla superficie.
E infine, l’ultimo dei segni araldici d’antico regime, quello della corona marchionale, conferita da Francesco III nel 1740, all’atto di ascendere al soglio ducale, in segno di riconoscimento e di attenzione alla «sua» città, la città capitale; un’ultima traccia di valenza feudale ¬ corrispondente al titolo di marchese con cui il duca usava ricompensare i fedeli ¬ prima che l’esercito francese falciasse via quel mondo, ma non anche i suoi simboli.
Le varianti napoleoniche e quelle, minimali, dell’Unità nazionale non hanno modificato l’impostazione araldica ¬ colori, simbolo, motto, fregio ¬ del Comune di Modena.
Oggi che la frenetica civiltà dell’immagine e del consumo ¬ con il suo pullulare vertiginoso di marchi, loghi e icone ¬ ha inaspettatamente fatto affiorare l’esigenza di interrogarsi sui motivi di fondo della simbologia di matrice medievale, legata all’universo evocativo dell’inconscio collettivo, a tutt’oggi, dicevo, resta intatta la forza di una richiesta identitaria che nella cittadinanza, nel suo patrimonio di diritti e di doveri, trova il suo necessario radicamento. «Il desiderio di identità», ha recentemente scritto il semiologo Oscar Calabrese, «deve insomma avere i suoi simboli, ovviamente accanto alla sostanza di quella identità. (...) I cittadini, per natura desiderosi di essere cittadini, devono sapere come e perché sono cittadini».
Che è quanto l’araldica civile può ancora rappresentare ed efficacemente segnalare con il suo prezioso carico di sedimentazione storica.
Professor Elio Tavilla – Università di Modena e Reggio Emilia
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