Un volume ricostruisce le vicende della scuola Collodi e del quartiere Crocetta
La prima campanella suonò il primo ottobre 1957. “Eravamo i primi ad entrare nella scuola nuova”, ricorda Arturo Ghinelli, maestro elementare, autore di libri di testo e collaboratore di quotidiani e siti internet. “C’erano i doppi turni e quando uscivamo d’inverno al pomeriggio era già buio”.
L’esigenza di costruire un nuovo edificio scolastico nel Rione Crocetta risale agli anni Trenta del secolo scorso, ma solo nel dopoguerra il sindaco Alfeo Corassori decise di inserire il progetto tra le priorità dell’amministrazione, nell’ambito del disegno di ricostruzione urbana dell’architetto e ingegnere Alberto Maria Pucci, membro della Costituente, senatore per un decennio, assessore comunale ai Lavori pubblici, l’uomo che contribuì a tracciare la fisionomia della Modena di oggi attraverso il Piano di ricostruzione del 1947 e il Piano regolatore del 1958.
Il progetto di massima – come racconta il volume “Grembiulini e macchie di inchiostro”, curato da Roberto Alessandrini e Donatella Valenti con testi di studiosi e ricercatori, interviste e schede realizzate da alunni e insegnanti e oltre cento foto, alcune delle quali inedite, provenienti dal Fotomuseo Panini e dal Museo della Figurina - fu approvato dalla Giunta Municipale il 16 febbraio 1954 per una spesa di 62 milioni di lire da coprire con un mutuo alla Cassa depositi e prestiti. “L’edificio – racconta l’architetto Alessandro Neri, che si occupa di edilizia scolastica per il Comune di Modena - fu realizzato utilizzando materiali tradizionali e durevoli, senza molto concedere al superfluo, data la natura popolare del rione e l’impellente necessità di realizzare edifici scolastici moderni e salubri”.
Ma com’era, dentro ai suoi muri, la scuola elementare statale tra gli anni Cinquanta e Sessanta? “Era la scuola dei bambini col grembiule che copriva tutto, anche i vestiti lisi; delle macchie di inchiostro che a cancellarle veniva il buco; delle maestre ‘con la vocazione’, un po’ mamme e un po’ garanti dell’identità nazionale; della Festa del risparmio, quando a tutti veniva regalato un salvadanaio di ferro a forma di libro; della letterina di Natale coi brillantini, scritta a scuola - cari genitori, quest’anno sarò buono -; delle braccia conserte e del gioco del silenzio; dei banchi di fòrmica verde col buco nero del calamaio; dei padri che, col cappello in mano, andavano a “sentire” se era meglio che i figli andassero a lavorare”, ricorda Adriana Querzè, assessore all’Istruzione del Comune.
Per l’infanzia di allora c’erano lucide e nere copertine di quaderni, ma anche i primi libri illustrati, i fumetti e le figurine. “Quando nel 1954 giunse la Tv non tutto cambiò”, spiega lo scrittore e saggista Ermanno Detti. “Anche perché il nuovo mezzo non si diffuse subito in tutte le famiglie, troppo povere all’epoca per permettersi questo lusso”. Ma qualche avvisaglia ci fu subito e nel 1960 la Tv era già in molte case. Effetto, anche, di quella grande mutazione economica che ha contraddistinto la storia della provincia modenese nel trentennio 1950-1980. “Il reddito procapite degli Italiani è aumentato in termini reali di cinque volte, quello dei Modenesi è cresciuto addirittura di nove volte”, spiega Giuliano Muzzioli, professore di Storia economica all’Università di Modena e Reggio Emilia. “Nella graduatoria del reddito pro capite delle 95 province italiane Modena, dal 40esimo posto occupato all'inizio degli anni Cinquanta, è balzata al vertice nel 1980, collocandosi tra le aree più ricche d'Europa”, nonostante nel 1955 fosse ancora tra le otto province italiane col maggior tasso di disoccupazione.
Tutto è destinato a mutare, anche i miti, i riti e le leggende di un quartiere di periferia la cui storia – narrata nel libro della studiosa Olimpia Nuzzi - è stata fortemente caratterizzata dall’acqua del Naviglio e dai binari della ferrovia, dalle fabbriche e dalla vita operaia (compresi i tragici fatti del 9 gennaio 1950, con sei morti alle Fonderie Riunite), dalle storie dei banditi degli anni Venti e dagli episodi della guerra, dalla presenza dei tedeschi e dei partigiani.
Un evento che segnò i tempi nuovi riguarda l’inaugurazione del cavalcaferrovia di viale Ciro Menotti. Le immagini di quel giorno, conservate al Fotomuseo Panini, raccontano un evento. “Vista oggi – commenta il ricercatore Stefano Bulgarelli - la costruzione di quel ponte sembra arricchirsi di significati simbolici. L'area urbana popolare per eccellenza, quella delle fabbriche ‘pesanti’, teatro di una tragica vicenda storica, veniva collegata alla città attraverso una grande arteria stradale che forse era in grado di ridurre quella distanza soprattutto ideologica tra ‘centro’ borghese e periferia industriale, che nel tempo si era creata”.
A partire dagli anni ’90, il principale processo di trasformazione di Modena ha riguardato proprio una consistente porzione di territorio urbano vicina alla linea ferroviaria storica.
“Nella trasformazione della Zona Nord di Modena – ricorda Marcello Capucci, responsabile dell’Ufficio progetti urbani del Comune - una delle maggiori preoccupazioni che ha attraversato l’intero processo di trasformazione è stata senza dubbio l’ombra del fare una nuova periferia. Il termine non dovrebbe avere quella connotazione negativa che spesso si porta dietro: d’altronde esistono vari modi per costruire città”.
L’esigenza di costruire un nuovo edificio scolastico nel Rione Crocetta risale agli anni Trenta del secolo scorso, ma solo nel dopoguerra il sindaco Alfeo Corassori decise di inserire il progetto tra le priorità dell’amministrazione, nell’ambito del disegno di ricostruzione urbana dell’architetto e ingegnere Alberto Maria Pucci, membro della Costituente, senatore per un decennio, assessore comunale ai Lavori pubblici, l’uomo che contribuì a tracciare la fisionomia della Modena di oggi attraverso il Piano di ricostruzione del 1947 e il Piano regolatore del 1958.
Il progetto di massima – come racconta il volume “Grembiulini e macchie di inchiostro”, curato da Roberto Alessandrini e Donatella Valenti con testi di studiosi e ricercatori, interviste e schede realizzate da alunni e insegnanti e oltre cento foto, alcune delle quali inedite, provenienti dal Fotomuseo Panini e dal Museo della Figurina - fu approvato dalla Giunta Municipale il 16 febbraio 1954 per una spesa di 62 milioni di lire da coprire con un mutuo alla Cassa depositi e prestiti. “L’edificio – racconta l’architetto Alessandro Neri, che si occupa di edilizia scolastica per il Comune di Modena - fu realizzato utilizzando materiali tradizionali e durevoli, senza molto concedere al superfluo, data la natura popolare del rione e l’impellente necessità di realizzare edifici scolastici moderni e salubri”.
Ma com’era, dentro ai suoi muri, la scuola elementare statale tra gli anni Cinquanta e Sessanta? “Era la scuola dei bambini col grembiule che copriva tutto, anche i vestiti lisi; delle macchie di inchiostro che a cancellarle veniva il buco; delle maestre ‘con la vocazione’, un po’ mamme e un po’ garanti dell’identità nazionale; della Festa del risparmio, quando a tutti veniva regalato un salvadanaio di ferro a forma di libro; della letterina di Natale coi brillantini, scritta a scuola - cari genitori, quest’anno sarò buono -; delle braccia conserte e del gioco del silenzio; dei banchi di fòrmica verde col buco nero del calamaio; dei padri che, col cappello in mano, andavano a “sentire” se era meglio che i figli andassero a lavorare”, ricorda Adriana Querzè, assessore all’Istruzione del Comune.
Per l’infanzia di allora c’erano lucide e nere copertine di quaderni, ma anche i primi libri illustrati, i fumetti e le figurine. “Quando nel 1954 giunse la Tv non tutto cambiò”, spiega lo scrittore e saggista Ermanno Detti. “Anche perché il nuovo mezzo non si diffuse subito in tutte le famiglie, troppo povere all’epoca per permettersi questo lusso”. Ma qualche avvisaglia ci fu subito e nel 1960 la Tv era già in molte case. Effetto, anche, di quella grande mutazione economica che ha contraddistinto la storia della provincia modenese nel trentennio 1950-1980. “Il reddito procapite degli Italiani è aumentato in termini reali di cinque volte, quello dei Modenesi è cresciuto addirittura di nove volte”, spiega Giuliano Muzzioli, professore di Storia economica all’Università di Modena e Reggio Emilia. “Nella graduatoria del reddito pro capite delle 95 province italiane Modena, dal 40esimo posto occupato all'inizio degli anni Cinquanta, è balzata al vertice nel 1980, collocandosi tra le aree più ricche d'Europa”, nonostante nel 1955 fosse ancora tra le otto province italiane col maggior tasso di disoccupazione.
Tutto è destinato a mutare, anche i miti, i riti e le leggende di un quartiere di periferia la cui storia – narrata nel libro della studiosa Olimpia Nuzzi - è stata fortemente caratterizzata dall’acqua del Naviglio e dai binari della ferrovia, dalle fabbriche e dalla vita operaia (compresi i tragici fatti del 9 gennaio 1950, con sei morti alle Fonderie Riunite), dalle storie dei banditi degli anni Venti e dagli episodi della guerra, dalla presenza dei tedeschi e dei partigiani.
Un evento che segnò i tempi nuovi riguarda l’inaugurazione del cavalcaferrovia di viale Ciro Menotti. Le immagini di quel giorno, conservate al Fotomuseo Panini, raccontano un evento. “Vista oggi – commenta il ricercatore Stefano Bulgarelli - la costruzione di quel ponte sembra arricchirsi di significati simbolici. L'area urbana popolare per eccellenza, quella delle fabbriche ‘pesanti’, teatro di una tragica vicenda storica, veniva collegata alla città attraverso una grande arteria stradale che forse era in grado di ridurre quella distanza soprattutto ideologica tra ‘centro’ borghese e periferia industriale, che nel tempo si era creata”.
A partire dagli anni ’90, il principale processo di trasformazione di Modena ha riguardato proprio una consistente porzione di territorio urbano vicina alla linea ferroviaria storica.
“Nella trasformazione della Zona Nord di Modena – ricorda Marcello Capucci, responsabile dell’Ufficio progetti urbani del Comune - una delle maggiori preoccupazioni che ha attraversato l’intero processo di trasformazione è stata senza dubbio l’ombra del fare una nuova periferia. Il termine non dovrebbe avere quella connotazione negativa che spesso si porta dietro: d’altronde esistono vari modi per costruire città”.
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