18/10/2001

"UNA MOSTRA SUGLI ORLANDINI, GLI "ALINARI DI MODENA""

Aperta fino a gennaio nella sede delle Raccolte Panini l'esposizione che ripercorre l'attività dello studio fotografico aperto in città nel 1870 e attivo fino al 1980
"Resterà aperta fino al gennaio del prossimo anno la mostra "Orlandini e figli, fotografi modenesi", aperta dal 20 ottobre nella nuova sede delle Raccolte fotografiche modenesi, in via Giardini 160. L'esposizione, che si può visitare dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 12 e dalle 15 alle 17 (visite guidate su prenotazione telefonando al numero 059 224418), propone cinquanta immagini che ripercorrono l'attività del celebre studio fotografico, aperto in città dal 1870 al 1980. Ci sono opere di Pellegrino, il fondatore, di Umberto, che riuscì ad ottenere notorietà a livello nazionale, e di Carlo, ultimo discendente, al quale va il grande merito di non avere disperso un archivio che oggi permette di osservare oltre un secolo di vita modenese. Il catalogo della mostra comprende anche il testo che segue, firmato dal giornalista Michele Smargiassi. Lo sguardo esteso degli Orlandini Definirli "gli Alinari di Modena" è far loro un torto. Nella piccola dimensione della loro città, gli Orlandini seppero fare sicuramente di più, forse di meglio. La conferma ce la dà proprio il catalogo storico dei fiorentini, così ricco di immagini dell'Italia artistica, ma così avaro di vedute modenesi. Sicuramente gli Alinari (e anche Anderson, che venne a Modena verso il 1895 e se ne ripartì con 94 lastre, ma tutte riproduzioni di quadri della Galleria Estense: neanche un esterno) non "sentivano" Modena, città priva di stereotipi (in Emilia, Ravenna era la bizantina, Parma la romanica, Bologna la medievale, Ferrara l'estense, e Modena un bel nulla) e trascurata dai baedeker dell'incipiente turismo, i cui asterischi erano le stelle comete della perlustrazione iconogenica dei fotografi d'oltre Appennino. Ma è anche vero che nel 1898, quando dopo anni di trascuratezza gli inviati della poderosa ditta di Firenze sbarcarono all'ombra della Ghirlandina, trovarono la città già ben "coperta". Pellegrino Orlandini ha già prodotto quasi tutte le 62 vedute del Duomo, delle chiese, dei monumenti e dei panorami cittadini che figureranno nel Catalogo a stampa del 1900. Studiosi d'arte, viaggiatori colti e cultori di storia locale hanno già nello studio di via Bagni il fornitore ideale per soddisfare le loro esigenze. Pellegrino conosce bene gli Alinari, è loro consocio nella Società fotografica italiana, partecipa assieme a loro alle principali mostre nazionali. Ma la concorrenza è concorrenza, e "non v'è una ragione", suggerisce lui stesso presentando alla città quel Catalogo, "che i monumenti e le vedute di Modena devano [sic] essere illustrate da fotografi di altre città".L'avrà vinta. Gli Alinari lasceranno Modena ai loro rivali locali. Che ne sapranno fare buon uso. Certo, di vedute non si campava. Come tutti gli studi fotografici dell'Ottocento, anche gli Orlandini vivevano di ritratti. Ma non avevano intenzione di vivere per i ritratti. Non Pellegrino il pioniere, che quando batteva da fotografo ambulante i paesi dell'Appennino era senza saperlo un antropologo visuale, e il suo bottino di volti e di pietre diroccate è adesso una miniera per lo studioso di storia sociale. Non Umberto lo sperimentatore, che della fotografia inseguiva sempre i sogni più audaci e le innovazioni più ardite. Ha solo diciannove anni nel 1898, quando la fabbrica milanese di attrezzi ottici Negri-Koritska presenta il primo teleobiettivo di produzione italiana, e lui se lo compra e subito s'arrampica sul tetto di palazzo Cuoghi per prendere di mira la Ghirlandina dalla distanza fino a quel momento proibitiva di duecento metri. Questo dell'arrampicarsi, per portare lo sguardo di vetro delle sue fotocamere là dove gli occhi dei passanti non arrivano, è un vizio che gli rimarrà. Quando prima delle processioni del Corpus Domini gli addobbatori del Duomo appoggiavano le loro lunghissime e malferme scale a pioli sulle fiancate romaniche, lui ne approfittava per andare su su a fotografare le minuscole mensoline di Wiligelmo; un giorno sua moglie lo vide lassù, traballante e felice, "tornò a casa", racconta il figlio Odoardo, "e svenne". Acrobata al servizio della visione, eccolo nel 1900 appeso ai ponteggi dei restauratori di casa Sbarberi, in via Emilia, armato stavolta di grandangolare, per uno dei suoi più riusciti virtuosismi: l'impossibile ritratto integrale, dalle fondamenta alla guglia, della torre Ghirlandina, senza eccessive distorsioni prospettiche. E quando nel 1911 i muratori addetti alla manutenzione della torre istallano una "bilancia", cioè un pontile sollevabile a mezzo di carrucole e paranchi, Umberto era di nuovo pronto, con fotocamera al collo e notevole fegato, a farsi issare fino a 40 metri d'altezza, conquistando immagini fino a quel momento familiari solo a tortore e piccioni, e consacrando definitivamente la sua fama di "fotografo grimpeur". Non sapeva, forse, di adempiere così ad una delle predizioni del profeta della fotografia, il fisico francese Arago, che presentando la scoperta di Daguerre al mondo, nel 1939, aveva immaginato che un giorno i fotografi avrebbero potuto "remonter aux dimensions exactes des parties les plus élevés, les plus inaccessibles des édifices". Né immaginava che Wiligelmo e Lanfranco, come altri "saintes artistes du Moyen Âge, avaient prevu le dagerréotype, en plaçant leur statuettes [...] à de sommets où les oiseaux que tournent au-dessus des tours pouvaient seuls les voir", come scriveva entusiasta un critico francese di fronte alle prove di un altro grimpeur dell'obiettivo, Le Secq. Cosa cercava Umberto, "portando la fotografia alle altezze dell'arte"' Immagini per un progetto ambizioso, avrebbe risposto lui. Un libro. Un Atlante fotografico del Duomo, una raccolta completa ed esauriente di tutte le immagini iscritte in quel meraviglioso libro di pietra, un ritratto integrale del capolavoro di Wiligelmo e Lanfranco. Realizzò quel progetto. Gli atlanti alla fine furono addirittura due. Insuperati fino a pochi anni fa, quando un altro fotografo modenese, Cesare Leonardi, s'incamminò sulle stesse orme di Umberto, con più bagaglio tecnico e culturale ma con lo stesso entusiasmo. Libri, e non solo fotografie. Perché Umberto si sentiva non solo fotografo, ma "fotografo-editore", così fece stampare sui biglietti da visita; e via via che passavano gli anni, solo "editore" (25 volumi in 25 anni gliene diedero l'autorizzazione). Non perché avesse rinnegato la carta ai sali d'argento per quella ad inchiostro. Ma perché aveva capito, come pochi alla sua epoca, che il destino della fotografia sta nella stampa, che Daguerre è un alleato (potente) e non un concorrente di Gutenberg. Editore vuol dire: immagini e parole. E Umberto cercò le migliori parole a disposizione perché fossero all'altezza delle sue immagini: chiamò a scrivere per lui Adolfo Venturi, Giulio Bertoni, il meglio della critica d'arte dell'epoca; e perfino Ezra Pound, un giorno, gli scrisse proponendogli di realizzare assieme un volume che purtroppo non si fece mai. Cercava solo questo' Potendo rispondere per lui, diremmo: no, cercava qualcosa di diverso e di più ambizioso ancora. Cercava di vedere di più. Di allargare il campo della visione, quello fisico-ottico, ma anche quello mentale, fino a comprendere angolature e territori insoliti. Teleobiettivo, grandangolo in fondo gli piacevano perché gli davano quel brivido dell'extrapercezione che avrebbe cercato di soddisfare con ogni strumento possibile, per esempio quel Fotoperigrafo Pasquarelli che su strisce di celluloide lunghe fino a 120 centimetri gli permetteva di impressionare panoramiche dall'angolo estesissimo, volendo anche "a completo orizzonte": se ne servì come di un taccuino da giornalista, come "un nuovo mezzo linguistico di racconto che gli permette[va] [...] di entrare nel vivo dell'avvenimento, di muoversi dentro di esso e di narrarlo nel suo svolgersi con una libertà mai prima conosciuta." Narrare con le fotografie è un altro modo per Umberto di fuggire la monotonia dell'immagine fissa: ha nel portafogli la tessera di corrispondente dell'Illustrazione Italiana, correrà "sulla notizia" ogni volta che gli impegni di lavoro glielo permetteranno: a Venezia dove è crollato il campanile di San Marco, a Roma dove s'inaugura il monumento a Vittorio Emanuele, a Bologna ai funerali di Carducci. Ma cercherà l'insolito anche nelle facce degli spettatori dell'ippodromo cittadino, nelle scene di strada, tra i banchi del mercato sotto la neve, precoce reporter del vivere quotidiano, mai tentato però di cavarne scenette oleografiche nel gusto allora. Se una tendenza artistica doveva influenzarlo, fu naturalmente la più d'avanguardia: l'estetica straight che muoveva i primi passi con Stieglitz, il padre della fotografia americana moderna che Umberto poté ammirare alle esposizioni di Firenze e di Torino del ... Come è già stato notato, alcune sue fotografie "da esposizione" (la Giornata piovigginosa addirittura prende a prestito il titolo dal Wet Day on the Boulevard di Stieglitz) portano più che dignitosamente quel marchio. Irrequieto, in cerca di nuove frontiere, Umberto provò anche il cinema, provò con esiti piacevolissimi le nuove lastre a colori Autochrome messe in vendita dai Lumière attorno al 1908, provò tutte le tecniche foto-tipografiche, dalla semplice zincografia alla difficilissima tricromia con cui immaginò di poter riprodurre in facsimile l'intera Bibbia miniata di Borso d'Este (ci riuscirà, quasi un secolo più tardi, un altro editore modenese, Franco Cosimo Panini, con analoga spericolatezza tecnologica). Pur di allungare lo sguardo oltre il consueto, oltre il già visto, Umberto provò tutto ciò che la tecnica contemporanea gli metteva a disposizione, senza risparmiarsi, senza risparmiare. Pochi mesi prima di morire lasciando lo studio al figlio Carlo, nel 1931, convocò l'affezionata segretaria dello studio per tirare le somme di un'intera carriera, di un'intera vita spesa per la fotografia. Le somme economiche non erano entusiasmanti, ma Umberto chiuse i libri mastri con un'espressione pacificata sul volto: "Non ho guadagnato molto. Ma credo di aver fatto qualcosa." Michele Smargiassi "

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